di Neri Pollastri
Qualche giorno fa un grande quotidiano nazionale ha distribuito in edicola l’ennesima ristampa di Platone è meglio del Prozac di Lou Marinoff, grande divulgatore e devastatore della Praxis filosofica a livello internazionale. Merita pertanto fare una piccola riflessione su quel libro.
Dopo Philosophische Praxis di Gerd Achenbach e una raccolta di saggi curata da Ran Lahav, trovati nel 1998 alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, quello di Marinoff fu uno dei primi libri del settore che lessi, acquistato in lingua originale negli U.S.A. con amazon.com assieme a Philosophy Practice di Shlomit Schuster. Ne rimasi sconcertato: il contrasto con quel che avevo letto nei precedenti libri era stridente, le inesattezze sulla storia della filosofia clamorose, le sciocchezze nelle indicazioni della pratica al di là di ogni millanteria. Si salvava la primissima parte, la quale – pur zeppa di banalità – era forse tollerabile come comunicazione da rotocalco. Non dedicai mai il mio tempo a parlarne in dettaglio, anche perché subito dopo l’uscita della sua traduzione italiana lo fece un amico con cui in quel periodo collaboravo attivamente, Alessandro Volpone, grande esperto di pratiche filosofiche (anzi, forse il primo in Italia a usare questa espressione) e oggi Presidente del C.R.I.F. A distanza di anni vale la pena andare a rileggere la sua recensione, ironicamente intitolata Platone è meglio del Viagra! (che rimanda anche a un’altra criticissima recensione, in inglese, di Tudor B. Munteanu), nella quale che elenca la moltitudine di grossolane sviste e di errori inanellati da Marinoff con grande puntualità e un feroce sarcasmo, tanto da affermare:
Tudor Munteanu ha scritto che «una spiegazione delle sviste di Marinoff potrebbe essere il suo riferimento esclusivo a fonti secondarie». Personalmente, suggerisco un’altra possibilità: egli potrebbe aver vinto la laurea in filosofia giocando al Bingo.
In seguito ho avuto modo di informarmi meglio su Marinoff, di conoscerlo personalmente e di scambiarci qualche idea. Non è stato difficile riconoscere in lui un personaggio interessato molto al marketing e poco al contenuto della pratica – che del resto ha sempre candidamente ammesso di non svolgere. Memorabile, nella storia internazionale della pratica filosofica, quando nel 1997 – proprio mentre mi iscrivevo al newsgroup internazionale che allora teneva in contatto i praticanti del mondo – egli organizzò la terza International Conference, a New York, con il preciso intento di promuovere una legge che vincolasse l’esercizio del philosophical counseling in uno Stato della confederazione all’iscrizione all’APPA, l’associazione professionale da lui fondata e presieduta. Il risultato furono vibranti contestazioni – il newsgroup fu inondato di proteste, ci fu anche chi dette a Marinoff di “fascist” a lettere cubitali – che giunsero nel meeting fino a dei veri propri tafferugli e all’accantonamento della proposta.
Per inciso, essendo quello il mio primo contatto con la comunità internazionale dei “praticanti filosofici”, la vicenda mi lasciò piuttosto sconcertato: possibile, pensai, che la capacità di dialogo di persone di questo livello siano così scarse? Il tempo mi avrebbe poi insegnato che tale comportamento, tra i “praticanti filosofici”, è più la norma che non l’eccezione.
In seguito Marinoff ha continuato a girare il mondo per promuovere i suoi libri (ne ha scritti altri, in un crescendo di banalità, anche se devo riconoscere che a un certo punto ho smesso di leggerli) e a vendere i suoi “APPA Certificate”, pezzi di carta inutili se non dannosi, in quanto attestanti la professionalità acquisita da un counselor filosofico dopo un corso di (al massimo) tre giorni! Va aggiunto che un’amica e collega, che fece ingenuamente il corso oltre quindici anni fa, mi ha raccontato che Marinoff confessò ridendo che la cosa per cui più va noto, il metodo PEACE, altro non era che una boutade a uso dei giornalisti. Del resto alle boutade il Nostro è aduso, visto che nel solo libro degno di qualche interesse (forse per questo non tradotto in Italia…), Philosophical Practice, svela che sono solo invenzioni posticce a uso dei media anche la bilioterapia e l’applicazione nella pratica di dottrine dei filosofi della storia, cosa che tuttavia non gli aveva impedito di illustrarle e spacciarle per vere proprio in Platone è meglio del Prozac. In Philosophical Practice (nel 2002, per la rivista “Kykeion”, ne ho scritta una recensione che si può leggere qui) egli scriveva infatti che la forma originaria e unica propria della pratica è quella di Achenbach, la quale non è altro che «una semplice indagine su un problema», quello del consultante, nella quale il consulente utilizza le proprie competenze filosofiche; «il fatto che il consulente sia anche un filosofo, e che perciò pensi come un filosofo e parli come un filosofo, sebbene in termini che anche il cliente può comprendere ed applicare, è precisamente ciò che rende filosofica la conversazione».
Nonostante tutto questo, ancor oggi c’è chi considera Platone è meglio del Prozac un libro importante, per il successo che ha riscosso (è stato tradotto in un numero impressionante di lingue) e perché, grazie a questo, avrebbe comunque contribuito a diffondere la consulenza filosofica. A me questo sembra un giudizio privo di contatto con la realtà. Se è infatti vero che, specie nella fase immediatamente successiva alla sua traduzione italiana, del libro hanno parlato i principali rotocalchi nazionali – io stesso sono stato intervistato da Capital, Io Donna, Glamour, Elle e molti altri, e invitato al Maurizio Costanzo Show), è impossibile dimenticare che il modo maldestro e distorto in cui vi viene descritta la pratica ha anche contribuito a confondere l’opinione pubblica, quando non a respingerla. Ricordo ancora una mia ospite allo “sportello” che avevo presso un Quartiere della mia città, la quale dopo un paio di incontri mi raccontò quasi scusandosi che un paio di anni prima era stata sul punto di chiedermi un appuntamento, ma dopo la lettura del libro aveva lasciato stare, avendone concluso che la pratica fosse una buffonata; solo le garanzie sulla mia serietà ricevute dai responsabili istituzionali l’avevano spinta a provare lo stesso, incontrando nei nostri dialoghi una cosa molto diversa da quella descritta dal libro.
Aggiungerei a questo che con le sue pubblicazioni e con il modo in cui porta avanti il marketing – peraltro quasi interamente dedicato a vendere i propri libri, tanto che ho conosciuto formatori aziendali di alto livello che lo avevano in “catalogo” non come counselor, ma come “autore di libri che si acquistano all’aeroporto” – Marinoff ha di fatto spaccato la comunità internazionale, contrapponendo il mondo anglosassone e ispanico al centro Europa, ove la Philosophische Praxis è nata ed è più diffusa. E questo sia perché – pur facendo come detto molta confusione – tende a “psicoterapeutizzare” la pratica mescolandola con il counseling (da cui anche la contrapposizione tra questo e la consulenza, che si è attestata in Italia), sia perché ha spesso approfittato della confusione creata nei suoi best sellers per ragioni di puro interesse (ricordo, perché ero presente nell’assemblea dei delegati, lo scontro che avvenne con i tedeschi a Leusden nel 2000, reso irresolubile dall’indisponibilità di Marinoff di distinguere “pratica filosofica” e “filosofia applicata”, differenza per i tedeschi essenziale), sia infine perché è totalmente disinteressato a dare spessore epistemologico al mero “fare” (quante volte, nelle conferences, se n’è andato a metà di interessanti seminari affermando sprezzantemente che fossero “solo teoria”….).
La Consulenza Filosofica e tutto l’universo della Pratica Filosofica hanno urgente bisogno di un salto di qualità, che passa dalla serietà della ricerca e dal rigore delle proposte e delle pubblicazioni: prendere una volta per tutte le distanze, in modo netto, da opere che non sono divulgative, bensì solo inaccettabilmente scadenti, perché confuse, piene di errori e di distorsioni quali quelle di Marinoff è una delle conditio sine qua non di qualsivoglia salto di qualità. La filosofia, in qualsiasi modo la si intenda praticare, è – lo sappiamo – anacronistica, scomoda, controcorrente, perché basata sulla critica e sulla messa in discussione di tutto quanto sia avvio e istituzionalizzato; il suo successo, perciò, non può passare dal fare il verso a ciò che va di moda o dall’uso della terminologia dei rotocalchi, com’è nello stile di Marinoff, ma dal propagare con ostinata perseveranza i semi della riflessione critica, fino alla riaffermazione della potenza del pensiero. Tutto il resto è supina sottomissione a una cultura che ha sempre relegato la filosofia nelle ininfluenti torri d’avorio.